Settembre nero, la strage silenziosa dei lavoratori

Settembre 2025 sarà ricordato come un mese tragico per il lavoro in Italia. Ventiquattro morti in trenta giorni: ventiquattro nomi che non dovrebbero restare confinati nella cronaca dei giornali. Non sono numeri, non sono statistiche: sono vite perdute per sempre.

Trento -

A Torino è caduto da un cestello a dodici metri d’altezza Yosif Gamal (sessantanove anni e tre figli) mentre montava cartelloni pubblicitari. A Riposto, nel Catanese, Salvatore Sorbello, cinquantatré anni, ha perso l’equilibrio sul tetto di un capannone industriale ed è precipitato da oltre otto metri. In Brianza, Antonio Arcuri, un operaio di quarantotto anni è stato schiacciato da un macchinario in una fabbrica di valvole. A Roma, lungo il Tevere, un quarantenne, Daniele Cucchiaro, è stato travolto da un muletto. I nomi sono tanti, troppi.

Le loro storie sono diverse, migranti, italiani, anziani e giovani, ma tutte raccontano la stessa verità: morire sul lavoro in Italia non è un’eccezione, è un tragico evento che si ripete ogni giorno.

Da gennaio a oggi i caduti sono oltre 700. Una carneficina silenziosa, che ancora non scuote a sufficenza le coscienze e non smuove abbastanza le istituzioni. Perché queste morti non sono fatalità: dietro ognuna di esse ci sono impalcature inadeguate, dispositivi di protezione assenti, controlli insufficienti, macchinari non messi in sicurezza, catene di subappalto che scaricano i rischi sui lavoratori più fragili, spesso precari o non più all’altezza di compiere certe mansioni. Con che coscienza si manda un uomo di sessantanove anni a una considerevole altezza, a montare un cartello pubblicitario? Insomma, il solito profitto posto innanzi alla vita umana. E mentre il sangue scorre, la risposta della politica resta sempre la stessa, inconsistente.

Ogni volta che muore un lavoratore, muore un pezzo di dignità del nostro paese. Eppure ci siamo assuefatti, come se fosse il prezzo da pagare per il nostro benessere, per il progresso, per le grandi opere, ecc. Non lo è. Non lo deve essere. Un Paese che costruisce strade, palazzi e fabbriche sulle tombe di chi li realizza non è un Paese civile. È un Paese che tradisce i propri valori, se ancora esistono, e i propri figli, a cui si prospetta un futuro senza sicurezza: schiavi del profitto.

C’è però un punto da cui ripartire: la rabbia. Rabbia che deve trasformarsi in impegno, in lotta, in pretese concrete e, soprattutto, in unità d’intenti tra le forze sindacali. Quindi, servono controlli veri, pene severe, investimenti in formazione e sicurezza, una cultura della prevenzione che sia obbligo morale prima ancora che norma di legge. E serve anche sollecitare i lavoratori affiché pretendano che questi impegni si realizzino. Non c’è modernità se non si garantisce che chi lavora torni a casa vivo. Questo dovrebbe entrare nelle coscienze di tutti. Dovrebbe!

Questo settembre ci lascia ventiquattro bare, sin’ora, e un’amara certezza: nei prossimi mesi conteremo altri nomi, altre famiglie affrante. Appare evidente come sia tutt’ora necessaria una grande mobilitazione generale che metta al centro tra le altre cose anche i morti sul lavoro per spingere il governo ad adottare misure concrete come l’introduzione del reato di omicidio sul lavoro che come USB da anni chiediamo e per il quale abbiamo organizzato iniziative e mobilitazioni nazionali. Una mobilitazione come quella ed in continutità con quella che sta attraversando il paese per la grave situazione palestinese. Perché la sicurezza non è un valore negoziabile.

Coordinamento Regionale Confederale USB

Nicola Messina